L'uomo come parte della natura: preservare la vita o accettare la morte come divenirismo naturale?
L'uomo è da sempre stato alla ricerca della vita eterna, sin dai tempi più antichi. Miti e leggende di tutte le civiltà hanno raccontato di figure immortali, divinità in grado di sfidare il tempo e di vivere per sempre. La scienza moderna sembra aver intrapreso la medesima ricerca, cercando di sconfiggere malattie e di ritardare l'invecchiamento attraverso la medicina e la tecnologia. Ma fino a che punto questo sforzo è giustificabile?
Per rispondere a questa domanda, è opportuno considerare la natura e il modo in cui essa stessa preserva la vita: la riproduzione è il meccanismo naturale attraverso il quale la specie si perpetua, ovvero non è la sopravvivenza del singolo individuo che il ciclo biologico predilige. Questo vale tanto per organismi complessi quanto per le cellule di cui essi sono composti.
Effettivamente, la struttura cellulare del nostro organismo ci spinge a vedere ogni cellula come un organismo vivente a sé stante. E ogni cellula ha un proprio ciclo vitale che può essere influenzato da fattori interni o esterni. Se quindi considerassimo ogni singola cellula come un unità esistente distinta, la “vita” del singolo individuo potrebbe essere considerata ancora meno importante.
Tuttavia, è importante notare che l'uomo ha anche un'aspirazione intrinseca alla sopravvivenza e alla conservazione di se stesso. La capacità di ragionare e di pianificare il futuro ha portato sia il singolo che la società ad adottare comportamenti proattivi per preservare la propria esistenza e quella di altri esseri umani; nella storia dello stato di diritto, infatti, le leggi sono state in linea di massima formulate per la tutela, intesa come preservazione dell'esistenza del cittadino, usando gli strumenti a sua disposizione per raggiungere tale fine.
Ma come conciliare il desiderio di preservare la vita con il naturale completamento di questa attraverso la morte? Forse la soluzione si risolve nell'accettare l'idea che la vita sia un ciclo, che ogni creatura nasca e alla fine muoia? Oppure andare oltre questo intrinseco processo biologico e ridefinirlo come "non completo", ovvero intraprendere il cammino di preservare ad oltranza la vita del singolo?
Una questione tutt'altro che risolta: difatti, i progressi nella cibernetica, nelle tecnologie neurali, nella ricerca di dove siano situati i nostri ricordi ed il nostro ego cosciente, ci potrebbero portare, in un futuro relativamente prossimo, ad un prolungamento dell'esistenza del singolo in termini di centinaia o migliaia di anni.
Ma fino a che punto può essere giusto o etico proseguire in questa ricerca? E soprattutto, cosa succederebbe se un numero esagerato di persone riuscisse a raggiungere questo obiettivo?
In molti contesti, gli sviluppi scientifici e tecnologici sono visti come un passo avanti per l'umanità e come una soluzione per i problemi ambientali, demografici e medici, ma in questo caso potrebbe avere l'effetto opposto, ovvero potrebbe anche creare problemi etici e sociali ancora più grandi.
Ad esempio, se solo una piccola parte dell'umanità avesse accesso alla tecnologia che permette una lunga vita, tanto per motivi economici quanto per ragioni di conoscenze tecnologiche in mano solo a pochi stati, si potrebbe creare uno squilibrio economico e sociale senza precedenti. Inoltre, se la lunga vita fosse alla portata di tutti, lo sfruttamento delle risorse ambientali aumenterebbe esponenzialmente e si creerebbe una situazione di eccessiva pressione su quanto il pianeta stesso sia in grado di fornire. Ovvero, il problema etico del prolungamento della vita deve comunque essere riportato al bilanciamento fra individui presenti e beni naturali disponibili. Metaforicamente parlando, ogni anno aggiuntivo in cui un individuo "utilizza" questo pianeta potrebbe essere considerato una specie di zavorra per l'ecosistema, le cui risorse potrebbero non essere sufficienti per tutti, siano questi umani o altre specie viventi. Inoltre, la società potrebbe subire cambiamenti significativi a causa della diversità di conoscenze e di esperienze che si accumulerebbero con il passare del tempo. Sebbene non vi sia una risposta definitiva, c'è ancora molto da comprendere sulle implicazioni sociali ed ambientali, anche perché di fatto già tutt'ora, con le tecnologie mediche e scientifiche odierne, la specie umana è di fatto in sovrannumero.
In sintesi, la battaglia per la preservazione dell'esistenza individuale, divisa da una parte nella consapevolezza della vita intesa come ciclo naturale dal destino mortale ineluttabile, e dall'altra nell'espletazione intrinseca dell'istinto di autoconservazione che attuiamo con ogni mezzo, è giunta ad una nuova fase. La scienza può rispondere al come, nel senso di comprensione dei fenomeni, ma a data attuale non al perché, nel significato esistenziale della domanda che ognuno di noi si pone nei confronti del proprio essere.
Che sia questo forse il motivo che ci spinge alla costante ricerca delle origini del cosmo, nella speranza che la decodifica di questo ci possa fornire una risposta?